L’UMILE ALBA DI UN MITO: QUEL RAGAZZO MAGROLINO DI 18 ANNI CON TRASCORSI ALLA VIOLA
Il 3 novembre è una data sacra per il basket mondiale. È il giorno in cui un’icona, un uomo che per noi calabresi ha anche il sapore di un ricordo di casa – quel bambino che giocava a minibasket nella Cestistica Piero Viola della nostra Reggio Calabria, mentre suo padre Joe incantava i palasport di Rieti, Pistoia e Reggio Emilia – fece il suo primo, timido passo verso l’immortalità.
Il 3 novembre 1996.
Il Forum di Inglewood è un tempio ricolmo di voci e luci. Tra i riflettori che accecano e il ruggito della folla, un ragazzo mingherlino e magrolino di appena 18 anni si toglie la tuta. Si chiama Kobe Bryant.
Il suo esordio in NBA non è un’esplosione. È un sussurro. Contro i Minnesota Timberwolves, Kobe gioca solo 6 minuti e 22 secondi, un fugace passaggio tra la fine del primo quarto e l’inizio del secondo. Il tabellone, alla fine, gli accredita uno 0-1 dal campo e zero punti.
Non c’è la gloria immediata, non ci sono le schiacciate che diventeranno la sua firma. C’è solo un adolescente, seduto in panchina, che osserva il suo nuovo mondo. Le prime sei partite sono un lento adattamento: appena 20 punti in totale. La sua prima intera stagione si chiuderà con medie da riserva: 7,6 punti in 15,5 minuti a partita. Il posto da titolare, alla guardia, appartiene a Eddie Jones, già una stella affermata.
Ma in quei minuti rubati, in quel silenzio statistico, si nascondeva il seme di tutto. In quella pazienza forzata, in quell’umiltà di accettare un ruolo minore, si forgiava la leggenda. Perché prima di essere il “Black Mamba”, Kobe fu quel ragazzo che non si accontentò dello zero, ma lo usò come carburante.


