1998, IL PRIMO ALLENAMENTO DI GINOBILI ALLA VIOLA
Il tempo a volte ha la delicatezza di un palleggio. Scivola via, silenzioso, per vent’anni e più. Poi, all’improvviso, un’immagine lo ferma, lo riavvolge e lo restituisce intatto, carico di tutta la polvere di stelle di cui è fatto un sogno.
È quello che è successo quando Emanuel “Manu” Ginóbili, leggenda degli San Antonio Spurs e dell’intera pallacanestro mondiale, che, prima del suo ingresso nella Hal of fame, pubblicò una fotografia in bianco e nero. Non una delle sue schiacciate da Hall of Famer in NBA, non un trofeo alzato al cielo, non un abbraccio con Duncan e Parker. No.
È la foto di un ragazzo. Alto, magrissimo, con un naso prominente che già preannunciava un carattere tenace. Indossa una canotta sudata e dei cortissimi pantaloncini, ha un pallone da basket in mano e lo sguardo perso in un punto lontano, fuori dall’obiettivo. È pronto. Pronto per il suo primo allenamento sul parquet del Pianeta Viola la casa della Viola Reggio Calabria.

“Solo 20 anni fa…”, scrive Manu, con quella malinconia dolce che hanno solo le cose belle che sono passate e che hanno costruito chi sei oggi. Il “Pibito” – il ragazzino – era arrivato da Bahía Blanca, in Argentina, con i suoi genitori, “pieno di illusioni e molto entusiasta”. Le “illusioni” non erano sogni ad occhi aperti, erano la materia prima del suo futuro: ambizione, coraggio, la fame pura di chi sa di avere un dono e non vede l’ora di spenderlo.
Ad aspettarlo, in quella città dello Stretto dove l’Europa finisce e comincia il Mediterraneo, c’era un uomo che aveva visto quel talento prima di tutti: l’allenatore Gaetano Gebbia. Fu lui a scovare il diamante grezzo, a credere che quel giovane argentino dall’eleganza felina e dal cuore di guerriero potesse brillare in Italia.
Lui? non deluse. Conquistò Reggio Calabria non con la statura da gigante, ma con la grazia dei suoi movimenti, l’intelligenza di gioco, una follia controllata che mandava in delirio il PalaCalafiore. In quelle due stagioni in maglia neroarancio, Manu non imparò solo a giocare a basket; forgiò il suo carattere, assorbì la passione calabrese, calda e genuina come il sole che baciava il suo allenamento.
Quel legame, tessuto vent’anni fa in un palasport di periferia, non si è mai spezzato ed il suo ritorno a Reggio ne è l’esempio. Nemmeno quando i riflettori del mondo si sono accesi su di lui: i trionfi a Bologna coin, i quattro anelli NBA con gli Spurs, l’oro olimpico con l’Argentina. Manu non ha mai dimenticato il suo primo approdo, la sua “prima volta” in Europa. Reggio Calabria non è stata una semplice tappa di una carriera, è stata la culla, il luogo dove il ragazzo è diventato uomo e campione.
Ginóbili è più di un ex giocatore; è un esempio. La sua storia è un monito e un’ispirazione per chiunque pratichi sport: ricorda che i viaggi più epici iniziano sempre con un primo, emozionante e tremante, passo. Che le leggende, a volte, si costruiscono non solo sotto i riflettori del Madison Square Garden, ma anche sul parquet di una società di cuore che in quel ragazzo alto e magro ha scritto per sempre la sua pagina più bella.
È la magia dello sport: un ricordo su Instagram che diventa una carezza per un’intera città e una lezione di umiltà per il mondo. Perché ogni leggenda ha un inizio, e per Manu quel inizio profumava di legno del PalaCalafiore e di sale del mare dello stretto.


